Francesco è un poeta e spontaneamente esprime la sua esperienza di Dio con il canto. In gioventù era stato un appassionato estimatore dei poemi dei trovatori che celebravano l’amore cortese; ora, invece, canta lo splendore dell’amore divino: “Tu sei amore e carità, tu sei speranza, tu sei umiltà, tu sei pazienza, tu sei bellezza, tu sei mansuetudine, tu sei sicurezza, tu sei quiete, tu sei gaudio e letizia, tu sei la nostra sapienza”.
Alla fine dei suoi giorni, certo di partecipare alla risurrezione del Signore, sperimenta una grande tenerezza e una grande gioia. La morte non è fine a se stessa, ma è il passaggio obbligato per accedere alla visione beatifica, alla contemplazione del volto di Dio.
Se poi la morte è unita al martirio – cioè alla consegna della propria vita nelle mani del Signore – rappresenta una testimonianza preziosa per tutta la Chiesa e l’intera umanità. Il martire per eccellenza è Cristo: egli domanda “volontari” che lo aiutino a portare la sua croce nella quotidianità, là dove essi vivono e nei compiti che sono chiamati a svolgere.
Ogni testimonianza cristiana autentica può dunque chiamarsi “croce”, può chiamarsi “martirio”, perché ripete nella storia l’evento di Gesù che si offre per amore. E la sua risurrezione ci garantisce di poter guardare in modo diverso alla “morte corporale”, “dalla quale – come direbbe il Santo di Assisi – nullo omo vivente po’ scampare”.
Anch’essa diviene sorella, non perché la morte sia buona in sé, ma perché nel credente prevale la prospettiva della speranza di “un nuovo cielo e di una nuova terra, dove non vi sarà più morte, né lutto, grida e dolore” (Ap 21,4).
La fede aiuta Francesco a riconoscere la bontà paterna di Dio anche nell’ora della morte: non dubita della fedeltà del Padre che lo ha sempre sostenuto e ha continuato a farlo anche in mezzo alle prove e alle sofferenze. In questo momento, adagiato sulla nuda terra, ripete sereno: “Non temete di dirmi che la morte è vicina: essa è per me la porta della vita”. Ed è anche sorella più di ogni altra creatura, perché il Padre lo sta finalmente per incontrare in un grande abbraccio d’amore: “Laudato sì, mi Signore, per sora nostra Morte corporale”.
La riconoscenza, la gratitudine, il saper accogliere la vita come un dono quotidiano di cui rendere grazie, sono i modi più semplici – ma straordinariamente preziosi – con cui ci dobbiamo porre di fronte a Dio. Egli non ci ha salvato per le nostre opere di giustizia, ma unicamente per amore. Gratuitamente ci ha donato suo Figlio come salvatore e in virtù della misericordia e della benevolenza divina siamo stati costituiti eredi della vita eterna.
Ben lungi dal contraddire il canto di Francesco, la morte lo completa in una logica assoluta. La legenda Perugina mette sulle labbra del Santo – che ormai sa di essere vicino alla fine – queste parole: “ Se devo morire presto, fate venire frate Angelo e frate Leone, perché intonino il cantico di nostra sorella morte”. Egli ha proclamato la bontà delle creature solo dopo aver avuto la certezza che esse lo conducono al regno di Dio. E’ insufficiente dire che il Cantico è vero “malgrado” la morte; bisogna dire che è “vero a causa” della morte. Le creature sono fraterne e ci parlano di Dio, soltanto in funzione di passaggio che conduce all’incontro con il Creatore. Il canto di Francesco è davvero quello dell’uomo salvato, dell’uomo redento, dell’uomo riconciliato con Dio e con i fratelli.
Porziuncola Riflessione Stefano Orsi Transito di San Francesco
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