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La testimonianza di Cinzia 12 Dic 2019

Ciò che prima gli riusciva amaro gli si trasformò in dolcezza

“Non si parte pensando di salvare il mondo: in missione si riceve molto più di quello che si dà”. Mi ero appuntata sul quaderno questa frase che ci avevano lasciato i frati durante il corso “Giovani e Missione” e pensavo di averla capita. Era un invito ad essere umili, perché nessuno si sentisse buono e speciale per quello che aveva deciso di fare. Avevo imparato la teoria, ma ancora non sapevo in che modo quella frase avrebbe attraversato la mia vita.

Così il 31 agosto 2019 ho iniziato il servizio a Betlemme in un asilo e nel centro anziani della Società Antoniana, un progetto locale supportato dall’ATS pro Terra Sancta. La prima settimana ha messo in discussione ogni cosa. C’erano bambini da prendere in braccio, da consolare, da cambiare, a cui dare la pappa e con cui giocare. Poi c’erano gli anziani che non potevano muoversi che avevano bisogno di essere imboccati e asciugati. Pochi parlavano inglese e io non parlavo arabo. Qualche giorno dopo ho conosciuto anche la realtà dell’Hogar Niño Dios, che accoglie bambini con disabilità di vario tipo. Mi chiedevo: ma io cosa ci faccio qui? Non so fare tutte queste cose, non le ho mai fatte in vita mia. I dubbi e le resistenze sono stati abbattuti a poco a poco, in un crescendo di gioia e di amore. Mi sono sentita come San Francesco quando incontra i diversi, gli esclusi: “Ciò che prima gli riusciva amaro, vedere e toccare dei lebbrosi, gli si trasformò veramente in dolcezza”.

Solo alla fine del mese in Terrasanta ho capito fino a che punto ho vissuto quella frase scritta sul quaderno. Me ne sono accorta al momento dei saluti. Precipitosi, fatti di poche parole, abbracci veloci e baci dati al vento per paura di perdere l’aereo. In quel momento ho rivisto come in un film tutto quello che mi stavo portando via, tutto quello che avevo ricevuto durante il mese in Terrasanta. C’era l’abbraccio di Rahme, la donna a cui davo la cena ogni sera, che al momento dei saluti sembrava aver capito tutto anche se non mi aveva mai detto una parola. Ogni sera, quando la imboccavo, mi fissava con uno sguardo penetrante che mi interrogava. Chissà cosa voleva dirmi. Le nostre comunicazioni erano fatte solo di “Hàlas” (basta), Habibti (amica, amore) e Shuey shuey (piano piano). Ogni tanto le parlavo anche in italiano, e lei continuava a fissarmi senza dire niente. Solo qualche volta si corrucciava e diceva: “Hàlas” perché non voleva più mangiare. Una volta sola l’ho fatta ridere e non la smetteva più.

Poi c’era il sorriso dolce di Norma, che mi parlava in arabo con una bella luce negli occhi e io cercavo di rispondere con le parole che avevo imparato. “Shukran iktir” (grazie mille), mi ha detto lei prima di andare via. Abudi invece era molto più giovane ma non poteva camminare bene e bisognava tenerle i polsi per farle fare qualche passo in corridoio. Le ho insegnato l’equivalente di “Yalla Yalla” (andiamo) in sardo perché la divertiva, così appena mi vedeva comparire urlava “Ajò” e rideva. Poi c’era Ivonne che amava fermarsi a parlare in giardino con me mentre fumava una sigaretta, e c’erano anche le parole non dette di Teresa, un’altra ospite del centro, che sono rimaste sospese nell’aria al momento dei saluti per il poco tempo a disposizione.

Me le sono portate via insieme alla croce che mi ha impresso sulla fronte Maria, con cui ho cantato La Vie En Rose e fatto lunghi discorsi in italiano. Mi sono portata via anche il sorriso e l’energia di Mirna, e mille altre cose che mi si sono impresse nel cuore. Non dimenticherò mai il sorriso disarmante di Ivan, gli occhi puri della piccola Salma, quelli tristi di Eli che voleva sempre la mamma e quelli birichini di Lulu, Mimi, Angela e Fuad. L’ultima immagine che ho nella mente è quella dell’impassibile Yussef che – dopo tanti miei tentativi di avvicinamento – si è fermato sulla porta, ha sollevato la manina prima che andassi via e mi ha mandato un bacio.

Allora mi chiedo: davvero io ho dato qualcosa, o sono loro ad avermi dato tutto quello che avevano? Parto con questa domanda nel cuore, e saluto per l’ultima volta quella terra dove il Verbo si è fatto carne, quella terra che lui ha scelto per farsi carne anche nella mia vita.

Cinzia Maria

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