È affascinante il brano della Genesi, là dove entra in scena la prima coppia, rappresentativa dell’umanità - Adamo ed Eva - insieme nel bene come nel male.
Per sottolineare l’inseparabilità dell’uno dall’altra si potrebbe leggere la provenienza di Eva dalla costola di Adamo nel quadro della mitologia greca, secondo cui l’uomo in principio era l’uno e l’altra, dall’aspetto rotondo e raggiante, prossimo all’Olimpo, della cui luce risplendeva.
Per indebolirne la forza e ridimensionarne le pretese, Zeus procedette alla sua divisione in due metà, con cui cercò di tenerlo lontano dal mondo divino, senza però spegnerne la nostalgia.
Nel Simposio (190d) si legge che Zeus, volendo castigare l’uomo senza distruggerlo, lo tagliò in due. Da allora «ciascuno di noi è simbolo di un uomo –hékastos oûn hemôn estin antròpou sÿmbolon».
Una completa estraneazione dal sacro avrebbe privato l’uomo della forza che lo sospinge verso quel mondo ben più ampio dell’altro come puro individuo.
Infatti, prima dell’altro che è fuori di noi e a cui eros ci indirizza, l’“altro” ci abita intimamente come ciò da cui ci sentiamo separati, di cui sentiamo nostalgia e a cui cerchiamo di congiungerci. È la dialettica umano-divina che segna la nostra avventura nel tempo.
Il fondo sacro, che come un’onda carsica alimenta la nostra storia, porta ad abbattere le barriere che ci separano dall’altro o pongono l’uno contro l’altro.
La divisione dell’uomo in maschio e femmina a opera di Zeus è punizione, perché soggiacesse al peso della mancanza e si piegasse ai suoi dettami, mentre la separazione a opera del Dio biblico di Eva da Adamo è il prologo alla nuova creazione di cui entrambi son chiamati a essere protagonisti. Adamo saluta Eva in un impeto di gioia “carne della mia carne”, attivando la comunione nella progettazione e nell’esecuzione, nel rispetto di entrambe le soggettività. Siamo all’aurora dell’umanità.
Nessuno viene al mondo da sé. Ognuno di noi viene ‘dopo’ l’altro – après toi (Levinas). Prima l’altro, grazie al quale si è. Il che comporta che il nostro nutrimento originario non è l’amor di sé, ma l’amore dell’altro, grazie al quale si è.
Si viene al mondo senza averne diritto - prima di essere, non essendo, non si ha alcun diritto.
Cosa si è allora se non un dono, la cui logica consente di dare senza perdere e di prendere senza togliere?
La mutua donazione è alimento della relazione reciproca, grazie a cui matura la comunione prima che la comunità, l’unione prima dell’unità. L’uomo viene all’essere nell’Eden o giardino delle delizie, il che significa nella pace.
Il richiamo è all’origine - la gratuità del gesto creativo - che gli intrecci causali successivi oscurano senza cancellare, da recuperare confermandone piuttosto complessità e ricchezza, a cominciare dalla conoscenza, autentica se assume la forma della ri-conoscenza.
Se questo orizzonte sembra lontano o arduo, occorre avere il coraggio di ripercorrere la storia a ritroso e ammettere che questa è stata vissuta all’insegna della ragione dominatoria, con i tratti di un individualismo possessivo e solitario.
Occorre aprire un altro sentiero. L’uomo è un abisso, diceva Agostino, e Pascal che «l’homme depasse infinement l’homme».
Dunque, ogni essere è capace di cose straordinarie, dotato di energie immense, di cui deve prendere coscienza per non lasciarsi sopraffare da alcunché, pur tra ondeggiamenti e difficoltà.
Ebbene, più che dare spazio a questo percorso e a dirne la fecondità - l’uomo non è fatto per possedere, ma per donare, creando, non distruggendo - si è continuato a esaltare il primato del bisogno o della mancanza, formando l’uomo e la donna alla mutua rapina.
Se le scienze - sociologia, economia, filosofia, teologia - non fanno spazio alla logica del dono, aprendo nuovi orizzonti di vita, continueremo a essere uomini e donne, affamati anche dalla fame futura, che vivono calcolando, incapaci di coniugare Eros e Agape, perché sopraffatti dallo stile accumulativo e dalla logica dell’appropriazione.
Non bisogna forse mettere in discussione questo tracciato attraverso un’operazione che spinga a porre in luce ciò che si è e ciò che si ha, e non solo e sempre ciò che non si ha e non si è, e dunque ciò che si è in grado di fare e di dare prima che ciò che ci è consentito di prendere e consumare?
Si impone allora il cambio di prospettiva: dall’antropologia possessiva all’antropologia oblativa.
Ecco il fascino del pensare francescano, fondato sul superamento dell’ansia accumulativa e sul predominio del donare sul prendere.
La convivenza è da pensare secondo la logica della famiglia allargata, dove ognuno è padrone e servo al tempo stesso ed è stimato in base alla capacità di ampliarne i confini.
Francesco comincia la sua avventura servendo i lebbrosi, ai quali si può solo dare senza prender nulla, creando intorno un alone, se non di festa, almeno di stima e di vicinanza.
Il principio generale della pedagogia francescana è che in misura che si alimenta l’anima si è in grado di contenere la fame del corpo, perché muta il nostro sguardo sul mondo, non più avido e possessivo.
Il che è possibile immergendoci nell’abisso infinito dell’essere attraverso la musica e la poesia, la filosofia e la teologia, la preghiera e la contemplazione, lasciandoci investire da quel mistero che non svaluta la conoscenza, ma stimola e fortifica il senso religioso dell’esistenza.
L’obiettivo da non fallire è di far rifiorire la bellezza dello stare insieme creando in libertà, investiti dalla luce non dell’etica del dovere, ma dell’etica della mutua donazione.
di Orlando Todisco OFMConv, docente di Filosofia francescana
per “San Bonaventura informa“ (Aprile 2018)
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