Il 4 settembre scorso, a Ravenna, alla presenza del Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella, è stato inaugurato il VII centenario della morte di Dante Alighieri che proprio in quella città, tra il 13 e 14 settembre 1321, «nel dì che la esaltazione della Santa Croce si celebra nella chiesa» (per dirla con il Boccaccio), terminò il suo viaggio terreno, là dove aveva portato a compimento quello poetico.
Tante le iniziative che, non solo nel «bel paese là dove ‘l sì suona» (Inf. XXXIII 79-80), si propongono per celebrare questo anniversario. Lo stesso papa Francesco ha pubblicato la Lettera apostolica Candor lucis aeternae in continuità con Benedetto XIV per il centenario del 1921 (enciclica In praeclara summorum) e con san Paolo VI per quello del 1965 (lettera apostolica Altissimi cantus). Certamente tali iniziative sono fortemente condizionate dall’attuale situazione pandemica (tanto che da qualche parte si sta pensando di prorogare il centenario a tutto il 2022), ma da quello che rimbalza sui social si riesce comunque ad avere un’idea della molteplicità di proposte che, in un modo o in un altro (dalle letture accademiche alle iniziative dell’industria gelatiera), hanno come riferimento il Poeta “nostro”. Sì, nostro. Almeno così ce lo hanno “consegnato” gli ultimi due pontefici citati: «Nostro, vogliamo dire della fede cattolica, perché tutto spirante amore a Cristo; nostro perché molto amò la Chiesa, di cui cantò le glorie; e nostro perché riconobbe e venerò nel Pontefice romano il Vicario di Cristo» (Altissimi cantus).
Ma anche “nostro”, cioè del movimento francescano. Al dì là del fatto che fosse stato o meno membro del Terz’Ordine o, come qualcuno ipotizza, addirittura novizio del Primo (per il riferimento alla corda di cui si dice cinto in Inf. XVI 106), è innegabile la sua conoscenza e anche il suo affetto per san Francesco, ma anche per la tradizione del pensiero francescano – senz’altro acquisita a cominciare dalla frequenza della scuola di Santa Croce – e ovviamente di san Bonaventura sulla bocca del quale, nel XII del Paradiso, mette l’elogio di san Domenico (come nel canto precedente aveva affidato a san Tommaso quello di san Francesco).
Un affetto che, quasi paradossalmente, possiamo riconoscere proprio là dove egli non risparmia allo stesso ordine francescano aspri rimproveri. Scrive il cappuccino Alberto Casalboni nel suo Dante e i francescani (“Collectanea franciscana” 70, 2000, 391-411) che «l’atteggiamento di Dante è sempre ambivalente nei confronti della Chiesa in generale e dei francescani in particolare: di esaltazione della dignità e della missione, ma anche di forte condanna della corruzione dei costumi degli individui». Un nostro che quindi - per citare ancora il Casalboni - «non può presentarsi con i soli toni del trionfalismo, anzi in alcuni casi si potrebbe riportare il verso indirizzato a lui stesso da Vanni Fucci: E detto l’ho perché doler ti debba (Inf. XXIV 151)».
Un nostro che è anzitutto responsabilità, come ci insegna ancora san Paolo VI che così afferma: «Dante è nostro, possiamo ben ripetere; e ciò affermiamo non già per farne ambizioso trofeo di gloria egoista, quanto piuttosto per ricordare a noi stessi il dovere di riconoscerlo tale, e di esplorare nella opera sua gli inestimabili tesori del pensiero e del sentimento cristiano, convinti come siamo che solo chi penetra nell’anima religiosa del sovrano Poeta può a fondo comprenderne e gustarne le meravigliose spirituali ricchezze» (Altissimi cantus).
Nella storia dell’Ordine questa responsabilità ha i nomi (più o meno noti) di alcuni confratelli: Accursio Bonfantini che nel Duomo di Firenze, poco dopo la morte del sommo Poeta, tenne una lettura pubblica della Commedia su incarico della Signoria della città; Giovanni Bertoldi da Serravalle che nel 1416, mentre partecipava al Concilio di Costanza, su richiesta di alcuni prelati inglesi, tradusse in latino il capolavoro dantesco e ne fece quindi il commento; Antonio d’Arezzo che a Firenze, nel 1428 e nel 1432, tenne letture dantesche ancora nel Duomo dove fece dipingere il ritratto di Dante con l’iscrizione: «Onorate l’altissimo poeta / che nostro è, e tiellosi Ravenna / perché di lui non è chi n’abbia pieta»; Jacopo Mattioli che nel 1452 tra l’altro commissionò a Benozzo Gozzoli per San Francesco di Montefalco alcuni ritratti di personaggi che resero illustre l’Ordine minoritico tra cui, proprio al centro dell’abside, il nostro, con l’iscrizione «THEOLOGVS . DANTES . / NVLLIVS . DOGMATIS . EXPERS»; Antonio Santi che nel 1677 a Ravenna fece la duplice ricognizione delle ossa del sommo Poeta sottratte dalla tomba per salvarle dal tentativo dei fiorentini di riportarle in Patria; Pietro da Figino che, dopo l’invenzione della stampa, cura l’edizione di ben quattro incunaboli dei quindici; Baldassarre Lombardi da Vimercate che nel 1791 pubblicò un commento alla Commedia che godette nel suo tempo di molta fortuna e notorietà; Stefano Ignudi, allievo di Giacomo Poletto di cui dal 1896 al 1904 fu supplente alla cattedra dantesca eretta da papa Leone XIII presso l’università dell’Apollinare (oggi Lateranense) a Roma, autore di un amplissimo commento alla Commedia, di particolare impegno nel campo teologico e ascetico, e una serie di saggi danteschi; Bernardino Rizzi da Cherso che nel 1921 compose l’oratorio in tre parti per soli, cori e orchestra Trittico dantesco.
Concludo questa carrellata con un semplice accenno a Severino Ragazzini, già segretario generale dell’Ordine, che all’indomani del centenario del 1965, a Ravenna fondò e fino alle morte avvenuta nel 1986 diresse il Centro Dantesco alla cui attività andrebbe dedicato uno spazio a sé. Su queste pagine non si può infine non ricordare Leone Cicchitto da Montàgano, che pubblicò su Miscellanea francescana diversi articoli, poi raccolti nel volume Postille bonaventuriano-dantesche (Roma 1940), mettendo in evidenza i rapporti dottrinali tra Dante e il Dottore Serafico. Una bella storia… da continuare.
di Maurizio Bazzoni
dal n. 98 di San Bonaventura
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