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La cattolicità in San Francesco d’Assisi 30 Gen 2019

Fedeli e soggetti alla Chiesa

La terza raccomandazione che Francesco, gravemente malato, rivolge a modo di testamento di ritorno da Siena riguarda la cattolicità dei frati. Dopo aver ribadito la centralità dell’amore reciproco e dell’osservanza della santa povertà, egli afferma: «Sempre siano fedeli e soggetti ai prelati e a tutti i chierici della santa madre Chiesa» (Compilatio Assisiensis, 59). Per il santo la cattolicità dei frati non è un tratto accessorio, ma indispensabile e necessario, uno dei lineamenti genetici del suo percorso di conversione e dell’Ordine da lui nato. Una cattolicità che viene espressa e misurata dai termini «fedeltà» e «soggezione», un legame di figliolanza con la Chiesa che respira, cioè, attraverso i polmoni della fede e dell’obbedienza. Una cattolicità, quella di Francesco e dei frati, che viene descritta come un ideale e crescente percorso in cui la fedeltà e la sottomissione si indirizzano rispettivamente «ai prelati e a tutti i chierici», cioè persone fisiche, visibili, concrete e che, a motivo del loro ministero, rendono altrettanto visibile e concreta la «santa madre Chiesa».

Due episodi, narrati dalle fonti agiografiche, possono aiutarci a comprendere la cattolicità come dato originario dell’esperienza cristiana di Francesco. La prima, tratta dalla Vita beati Francisci di Tommaso da Celano, è la scena della spoliazione dinanzi al vescovo Guido, al quale Francesco era stato condotto dal padre inferocito per lo sperpero che il giovane aveva fatto dei suoi soldi e delle sue stoffe: «Comparso davanti al vescovo, Francesco non esita, né indugia per nessun motivo: senza dire o aspettar parole, si toglie tutte le vesti e le getta tra le braccia di suo padre, restando nudo di fronte a tutti. Il vescovo, colpito da tanto coraggio e ammirandone il fervore e la risolutezza d’animo, immediatamente si alza, lo abbraccia e lo copre col suo stesso manto» (1Cel 15, FF 344). La cattolicità di Francesco trae origine da quell’abbraccio paterno e misericordioso al quale egli si abbandona, al quale affida la sua povera nudità. Egli fa esperienza di una Chiesa come spazio accogliente e benevolente, manto disponibile nel quale potersi rivestire dei sentimenti di Cristo. E, infatti, l’opera seconda di Tommaso da Celano metterà sulle labbra di Francesco queste parole ad accompagnare il gesto fortissimo della restituzione del denaro e delle vesti: «D’ora in poi potrò dire liberamente: Padre nostro, che sei nei cieli, non padre Pietro di Bernardone» (2Cel 12, FF 597). Proprio l’abbraccio accogliente della Chiesa, impersonata dal vescovo di Assisi, diviene l’utero materno che partorisce l’uomo nuovo, il figlio di Dio, Francesco.

Il secondo episodio è quello dell’incontro di Francesco e della prima fraternità con Innocenzo III. Si tratta di un gesto audace e necessario quello di dirigersi a Roma, un gesto dotato di una forte carica istituzionalizzante, quello di porre al vaglio della Chiesa l’intuizione di vita evangelica ricevuta da Dio. Dall’abbraccio originario ricevuto nel vescovado di Assisi, Francesco riceve l’ispirazione di affidare l’intuizione al manto materno dell’istituzione, senza paure, con la serena fiducia di un bambino. Nel narrare questo episodio, la prima storia dell’Ordine, quella che comunemente conosciamo come Anonimo perugino, mette sulle labbra di Francesco queste parole, che sembrano profeticamente anticipare quelle che pronuncerà nel 1226 di ritorno da Siena: «Fratelli, vedo che il Signore vuole fare di noi una grande comunità. Andiamo, dunque, dalla madre nostra, la Chiesa romana, e notifichiamo al sommo pontefice le cose che il Signore sta facendo per mezzo nostro» (AnPer 31, FF 1523). Quel celebre incontro, che nessuna delle opere agiografiche antiche ha potuto tacere e che Giotto ha mirabilmente rappresentato nel ciclo di affreschi della basilica superiore di san Francesco, era stato preceduto, ci narra Tommaso da Celano, da un sogno rimasto impresso nella memoria del pontefice: «Aveva sognato che la basilica del Laterano stava per crollare e che un religioso, piccolo e spregevole, la puntellava con le sue spalle perché non cadesse» (2Cel 17, FF 603). La cattolicità di Francesco si esprime in questa sottomissione capace di portare il peso delle fragili colonne della Chiesa, nel farsi puntello umile in grado di contenere i crolli che la attraversano e ne minano la stabilità. Si tratta di una cattolicità che si declina in un filiale servizio scevro di giudizio, accusa, condanna, dinanzi alle crepe che deturpano il volto della Sposa di Cristo e ne infiacchiscono la luminosità. «Fedeltà e sottomissione», allora, sono in Francesco rappresentate dai gesti rispettivamente del lasciarsi accogliere, rivestire, accudire, dalle mani materne della Chiesa e del sub-portare, cioè del reggere dal basso, come servo, i suoi pesi e le sue fragilità.

La cattolicità di Francesco ha avuto perciò bisogno di necessarie mediazioni umane alle quali affidarsi e ricorrere per divenire in lui valore permanente, assoluto, irrinunciabile. Vari passaggi dei suoi scritti ci testimoniano questa lucida consapevolezza. Già nell’esordio della sua Regola Francesco afferma: «Frate Francesco promette obbedienza e reverenza al signor papa Onorio e ai suoi successori canonicamente eletti e alla Chiesa romana. E gli altri frati siano tenuti a obbedire a frate Francesco e ai suoi successori» (Rb I,2-3, FF 76). La Regola dei frati Minori esordisce con una promessa solenne e permanente di «obbedienza e reverenza» alla persona concreta del Romano Pontefice: a lui il santo si sente legato non semplicemente da una fredda e impersonale relazione giuridica, ma da qualcosa che si esprime con i segni esterni di venerazione che merita la sua persona, a motivo della dignità di cui è rivestita. E questo legame personale di riverente sottomissione è l’anello di congiunzione che tiene saldamente e indissolubilmente uniti i frati alla Chiesa. Il vincolo filiale di obbedienza alla Chiesa viene rinsaldato e ribadito quotidianamente attraverso la preghiera del divino ufficio: «I chierici dicano il divino ufficio secondo il rito della santa Chiesa romana» (Rb II,1, FF 82). Questa disposizione, oltre ad aver prodotto, come effetto salutare all’interno dell’Ordine, l’uniformità e l’unità nel modo di pregare, ha realizzato un effetto molto importante consistente nel rafforzamento dei vincoli tra l’Ordine e la Chiesa di Roma. Tali vincoli appaiono espressi con grande vigore anche in altri scritti di Francesco, nei quali la fedeltà nella recita dell’ufficio secondo la Regola appare come un sinonimo di cattolicità. Uno di tali scritti è la Lettera a tutto l’Ordine nella quale, dopo aver insistito sul modo di recitare l’ufficio e sulla fedeltà a esso come prescrive la Regola, Francesco aggiunge: «Quei frati, poi, che non vorranno osservare queste cose, non li ritengo cattolici, né miei frati; non li voglio neppure vedere né parlare con loro, finché non abbiano fatto penitenza» (LetOrd 44, FF 229). Queste parole sono sulla stessa linea di quanto detto nel Testamento: «E se si trovassero alcuni che non facessero l’Ufficio secondo la Regola e volessero variarlo in altro modo, o che non fossero cattolici, tutti i frati, dovunque siano, per obbedienza siano obbligati, dovunque trovassero uno di questi, a presentarlo al custode più vicino a qual luogo dove lo avranno trovato». Negli scritti che si situano negli ultimi anni della sua vita, si accentua in Francesco, in modo quasi ossessivo, la difesa di certi valori, e tra essi l’unità interna del suo Ordine e di questo con la Chiesa, unità che si manifestava nella fedeltà all’ufficio, fino al punto di stabilire una totale identificazione tra «ufficio divino» ed «essere cattolico». Un valore, quello della cattolicità, da difendere in maniera tenace, anche assumendo atteggiamenti di virile fermezza e di intransigenza, inusuali per la sensibilità di Francesco, più incline ai sentimenti della misericordia e della tenerezza.

Il legame tra cattolicità e mediazioni umane appare anche nel capitolo finale della Regola minoritica nel quale Francesco chiede per il suo Ordine la figura del cardinale protettore quale «gubernator, protector et corrector». Ancora una figura concreta, in carne e ossa, capace di garantire e di rinsaldare il vincolo di fedeltà e sottomissione alla Chiesa e di assicurare, di conseguenza, l’osservanza della povertà, dell’umiltà e del santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo (cf. Rb XII,3-4, FF 108-109). Alla fine lo stretto legame con la madre Chiesa, lungi dall’esprimersi in un’adesione formale o ideologica, è funzionale a vivere meglio il cuore del Vangelo, cioè la povertà e l’umiltà di Gesù, il suo atteggiamento di servizio e di kenosi, il suo dare la vita fino alla morte di croce.

«Fedeli e soggetti alla Chiesa» è oggi l’invito rivoltoci da Francesco, in un tempo in cui la mediazione ecclesiale sembra essere avvertita come limitante o superflua, specie dinanzi agli scandali che la feriscono e ai peccati dei suoi membri. Una chiamata a lasciarci accogliere con fiducia dal manto materno e inclusivo della Chiesa, unico spazio possibile in cui poter fare l’esperienza sanante della misericordia del Padre che è nei cieli; una chiamata a stare nella Chiesa come coloro che la sub-portano, cioè come coloro che, in atteggiamento di servizio, si rendono disponibili a farsi carico delle sue colonne scricchiolanti e delle crepe che la feriscono; una chiamata a cercare mediazioni umane capaci di rinsaldare il vincolo filiale con la Sposa di Cristo: primo tra tutti, il Romano Pontefice, poi i vescovi e, da ultimo i sacerdoti, che, a motivo della loro consacrazione, «nelle loro mani» (cf. Ammonizione I, FF 144) rendono visibile, sperimentabile, attuale, contemporaneo alla vita dell’uomo l’umile sacrificio d’amore di Cristo.  

 In FRANCESCANE COSE, a cura di Simone Ceccobao
dal n. 3/2018 della 
Rivista Porziuncola  



Cattolici Chiesa Rivista Porziuncola San Francesco Simone Ceccobao

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