Prosegue il percorso di conoscenza su alcuni temi di vita francescana, lo faremo guidati da fra Simone Ceccobao, studioso di spiritualità francescana e lo faremo in due tappe sul tema della povertà.
Sulla via che da Siena lo avrebbe portato ad Assisi, Francesco, gravemente malato, ad un frate che gli aveva chiesto delle parole come «ricordo della sua volontà», dopo aver richiamato la centralità dell’amore vicendevole, esclama: «[…] e osservino la nostra signora santa povertà» (Compilatio Assisiensis, 59).
La seconda preoccupazione di Francesco riguarda l’osservanza della povertà. Un testo tratto ancora dalla Compilatio, e probabilmente risalente alla viva voce dei primi compagni, può aiutare a cogliere alcune coordinate per comprendere il pensiero di Francesco su questo tratto peculiare da lui impresso all’Ordine e che tanti dibattiti ha suscitato in otto secoli di storia francescana. Si afferma: «Fin dall’inizio della sua conversione il beato Francesco, con l’aiuto del Signore, fondò se stesso e la sua casa, vale a dire la sua Religione, da sapiente architetto, sopra la solida pietra, cioè sopra l’altissima umiltà e povertà del Figlio di Dio, e la chiamò Religione dei frati minori» (Ivi, 9).
Lungi dall’esprimersi nella semplice rinuncia ai beni, per Francesco la povertà ha un evidente presupposto cristologico che lo spingeva, da un lato, a rivestire di tenera compassione i poveri e, dall’altro, a seguire le orme di Cristo povero (cf. Vita Seconda, 90), del quale, «con tutto lo slancio dell’anima», aveva impresse nella memoria «l’umiltà dell’incarnazione e la carità della passione» (cf. Vita Prima, 84), tanto che, come riporta ancora Tommaso da Celano nella sua seconda opera biografica, alla fine della vita, dando eco alle parole dell’apostolo Paolo di 1Cor 2,2, egli potrà dire con tutta fermezza: «Conosco Cristo povero e crocifisso, non ho bisogno di altro» (Vita Seconda, 105).
Da questa contemplazione appassionata nasce in Francesco il desiderio dell’imitazione, come lo stesso Santo affermerà nella sua Regola del 1223: «I frati non si approprino di nulla, né casa, né luogo, né alcuna altra cosa. E come pellegrini e forestieri in questo mondo, servendo al Signore in povertà ed umiltà, vadano per l’elemosina con fiducia. Né devono vergognarsi, perché il Signore si è fatto povero per noi in questo mondo. Questa è la sublimità dell’altissima povertà, quella che ha costituito voi, fratelli miei carissimi, eredi e re del regno dei cieli, vi ha fatto poveri di cose e ricchi di virtù. Questa sia la vostra parte di eredità, quella che conduce fino alla terra dei viventi. E, aderendo totalmente a questa povertà, fratelli carissimi, non vogliate possedere niente altro in perpetuo sotto il cielo, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo» (Regola bollata, VI,1-6). Questo testo fa parte di un trittico costituito dai capitoli IV-VI della Regola bollata nel quale viene sviluppata la tematica generale della povertà. In realtà, già nell’esordio del testo del 1223 Francesco, presentando i lineamenti fondamentali della vita dei frati Minori, aveva affermato che essa consiste nell’«osservare il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, vivendo in obbedienza, senza nulla di proprio e in castità» (Rb I). Riferendosi alla «povertà », viene usata l’espressione «senza nulla di proprio» (sine proprio).
Con essa Francesco non indica la mancanza di beni materiali, ma, soprattutto, la non appropriazione di essi, in altre parole, lo sradicamento di ogni possesso dal profondo del cuore, come dice anche nell’Ammonizione XI: «Quel servo di Dio che non si adira né si turba per cosa alcuna, davvero vive senza nulla di proprio». In questo passo della Regola risuonano le esigenze della sequela di Cristo che determinarono la vocazione dei primi frati e che si sedimentarono nel primo capitolo della Regola del 1221 con queste parole: «Se vuoi essere perfetto, va’ e vendi tutto (cf. Lc 18,33) quello che hai, e dallo ai poveri e avrai un tesori in cielo; e vieni, seguimi (Mt 16,21)».
Il principio del sine proprio viene declinato da Francesco dapprima riferendosi all’uso del denaro (capitolo IV), poi in rapporto al modo di lavorare (capitolo V) e, infine, trattando di povertà e di elemosina (capitolo VI). Francesco, innanzitutto, chiede un cuore espropriato rispetto all’uso del denaro: «Comando fermamente a tutti i frati che in nessun modo ricevano denari o pecunia, direttamente o per interposta persona» (Rb IV). Collegata alla proibizione evangelica di Mt 10,9, la ferma proibizione di Francesco mira a salvaguardare essenzialmente la minorità, poiché, da un lato, il denaro aveva durante il Medioevo un valore reale e convertibile in qualunque luogo e, dall’altro lato, costituiva un mezzo per assicurarsi un futuro nella vita. Sopra tutte le cose, il frate minore, pertanto, deve mettere la sua fiducia nell’amore paterno e provvidente di Dio e non nell’attaccamento del cuore alla sicurezza derivante dal denaro.
Nel capitolo V Francesco specifica ulteriormente il suo pensiero sul sine proprio offrendo il criterio generale del lavoro come condizione necessaria per vivere da poveri: «Quei frati ai quali il Signore ha concesso la grazia di lavorare, lavorino con fedeltà e con devozione così che, allontanato l’ozio, nemico dell’anima, non spengano lo spirito della santa orazione e devozione, al quale devono servire tutte le altre cose temporali. Come ricompensa del lavoro ricevano le cose necessarie al corpo, per sé e per i loro fratelli, eccetto denari o pecunia, e questo umilmente, come conviene a servi di Dio e a seguaci della santissima povertà » (Rb V).
In FRANCESCANE COSE, a cura di Simone Ceccobao
dal n. 1/2018 della Rivista Porziuncola
Povertà Riflessione Rivista Porziuncola Simone Ceccobao
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