Sant’Agata Feltria, nel cuore del Montefeltro, fra Marche e Romagna, primi di novembre 1868. Un giovane canonico della locale collegiata (non ha ancora trent’anni), già noto nella regione come valente ed efficace predicatore, fugge con una parrocchiana, con la quale intrattiene una relazione da alcuni mesi. Si rifugiano prima a Milano, poi in Svizzera, a Lugano, ma la passione si esaurisce rapidamente e dopo poco più di un mese i due tornano, avviliti e sconfitti, dove erano partiti. Seguono denunce, il carcere, minacce di processo, richieste di risarcimenti, voci (poi smentite) di una gravidanza in corso. Per entrambi incomincia un cammino di ravvedimento e di penitenza.
Una storiaccia, come tante altre, o un’esperienza di caduta e pentimento, di morte e rinascita? Quella vicenda fu lo snodo decisivo nella vita di Luigi Vicini, il canonico fuggitivo e pentito. Rientrato in diocesi, dopo un periodo di ritiro alla Verna, nel 1871 decide di entrare nell’Ordine francescano, ove compie la sua professione nel 1875 come Agostino da Montefeltro.
L’assunzione del nome del grande convertito dei primi secoli è l’indicazione di un programma. Il superamento della crisi diventa il formidabile propulsivo di una vita trasformata e trasformatrice. Il frate diventerà il predicatore italiano forse più celebre degli ultimi decenni dell’Ottocento, richiamando folle innumerevoli in moltissime città della penisola. La parola trascritta e stenografata (proprio come avveniva a san Bernardino da Siena) si diffonde con la stampa che può alterare e tradire ma moltiplica e amplifica, in un’Italia in cui il cattolicesimo è ostinatamente rifiutato dalle classi dirigenti e dall’intellighentsia. Da Agostino sono attratti Achille Ratti e Giuseppe Toniolo, Ludwig von Pastor e Giosuè Carducci, Gian Francesco Gamurrini e Agostino Gemelli e perfino il paganissimo Friedrich Nietzsche non rimane indifferente alla sua irresistibile oratoria. Lo accusano di imparare a memoria quanto recita con apparente naturalezza, di essere un plagiario, un ripetitivo e un fanatico (e, per giunta, di andare a caccia).
Nonostante tutto, fu l’«idolo del popolo italiano per circa un decennio», come scrisse di lui Giovanni Semeria. «Dal pulpito e nel pulpito — prosegue il barnabita — ottenne veri trionfi. Ebbe l’onda della popolarità: attrasse le folle: penetrò anche nei villaggi. Eppure fu anche predicatore di cartello (...); predicatore di grandi città; attrasse col popolino le classi più elevate: dame dell’aristocrazia, professionisti, funzionari dello Stato, graduati dell’esercito».
Nel quaresimale romano del 1889, a san Carlo al Corso, Agostino invoca la benedizione di Dio sul re e sulla patria italiana. Si scatena un pandemonio fra conciliatoristi e fautori fedeli del non expedit e delle direttive pontificie. Per quanto Agostino sia incline alle posizioni di Luigi Tosti e Geremia Bonomelli, il motivo politico non è però rilevante nella sua predicazione che ha invece per oggetto i grandi e classici temi (Gesù Cristo, l’Eucarestia, la confessione, i novissimi) e, alla luce di questi, le condizioni della società. «Toccava i preamboli della fede per gli uditori vacillanti, increduli: ma non evitava né i dogmi, né la più pura morale evangelica». Fu implacabile contro l’evoluzionismo, l’eugenetica, il darwinismo sociale; mise alla berlina la massoneria, lo scientismo, l’irreligione e il libero pensiero divenuti dogmi di una nuova religione. Propugnò la libertà della famiglia e fu severissimo con gli sfruttatori della povera gente: «Un padrone si avvicina all’operaio e gli dice: “La sorte ti ha fatto misero; ebbene, dammi il tuo lavoro e ti darò il mio pane”. L’operaio acconsente. Così nasce la prostituzione del lavoro».
Tutto, però, con stile «moderno». Non «concioni preziose, leccate, retoriche», ma un argomentare diretto, da «uomo del suo tempo, che con altri uomini trattava affari serii, concreti». «Cose vecchie, — prosegue Semeria — o meglio, eterne, in modo novo. (...) Molte fedi rovesciate, molte pseudo-certezze antireligiose furono scosse salutarmente. Chi non si convertì cominciò a dubitare del suo errore: non disse ancora un bel Così è, ma non disse più un burbanzoso Così non è. Non si potevano dire quelle sue prediche discorsi teologicamente densi e profondi (...) Erano però religiosamente sani ed efficaci: ragionamenti facili, intercalati con moti lirici, affettivi, più efficaci del ragionamento».
A Pisa, ove si è trasferito sin dal 1877 dal convento di Montecalvario, nei pressi di Pistoia, Agostino fonda nel 1887 una scuola popolare e una normale. Poco dopo, nel 1893, a Marina di Pisa, erige un grande istituto per bambine orfane e nello stesso anno fonda una congregazione, le Figlie di Nazareth, che si sarebbero occupate delle bimbe, come fossero loro madri e sorelle. Definitore della sua provincia religiosa, poco per volta lascia l’esercizio attivo della predicazione per dedicarsi interamente alle opere di carità, mentre i suoi interventi conoscono malgré luiinnumerevoli e incontrollate edizioni, resoconti e compendi, con traduzioni in tedesco, inglese, spagnolo e portoghese (Agostino mostra per la traduzione scritta della sua parola orale la stessa insofferenza platonica). La leggenda si impadronisce della biografia alterandone i tratti con sviluppi romanzeschi (si favoleggia addirittura un suo passato garibaldino) che arrivano nelle Americhe e in Nuova Zelanda. Muore nell’istituto da lui creato il 1° aprile 1921 e viene sepolto nella chiesa che vi aveva fatto erigere.
La stringata e puntuale voce del primo volume del Dizionario biografico degli Italiani (1960), scritta dal conventuale Giovanni Odoardi, appare assai laconica e pour cause sulla crisi del novembre 1868, sulla quale non si erano soffermate le ricostruzioni biografiche di Bernardino Sderci (1921), Ildefonso Buratti (1949), Francesco Sarri (1956, ripresentata nel 1993 a cura di Marino Damiata). Odoardi sottolinea invece come la predicazione di padre Agostino, se non del tutto originale, mostrò toni nuovi e personali contribuendo «allo sviluppo della predicazione apologetica ed alla diffusione di concetti della sociologia cristiana», preparando il terreno per la Rerum novarum.
Eppure la figura del canonico feretrano divenuto francescano appare più ricca e complessa di quanto la ricostruzione dei fatti salienti della sua vita può far pensare. La biografia che Didier Rance ha dedicato nel 2017 al francescano, prontamente tradotta in italiano da Paolo Canali, introduce nel modo migliore a uno dei fenomeni più singolari ed eclatanti della vita religiosa italiana tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento (D. Rance, Padre Agostino da Montefeltro. Un francescano originale che ha segnato un’epoca, introduzione di A. Zambarbieri, Milano, Edizioni Biblioteca Francescana, 2018 [Vite da frati, 2], pp. xvii + 261). Eugenio Pacelli, che, tredicenne, aveva ascoltato il francescano a Roma, sessant’anni dopo ricordò al gesuita Riccardo Lombardi, «il microfono di Dio»: «Ciò che avveniva con padre Agostino era prodigioso, certamente c’era del soprannaturale, non era soltanto un fatto naturale».
Incoraggiato dal ministro generale Bernardino da Portogruaro, l’antico canonico incontrò nel suo Ordine ostilità e diffidenze. Anche nell’Italia del suo tempo, Agostino fu un segno di contraddizione, che scatenò un’accesa polarizzazione fra sostegni entusiasti e decise ripulse (a Roma, a san Carlo, fu addirittura oggetto del lancio di bombe-carta e per la strada di sacchi di escrementi umani). La sua peculiarità non risiedette tanto nel particolare percorso biografico, di caduta e resurrezione, ma nella capacità di coniugare due filoni sempre vivi nella tradizione cristiana, però non frequentemente appaiati: la predicazione, instancabile, che sembra richiamare le grandi figure dell’Osservanza francescana e il più vicino modello francese di Lacordaire, e la carità sociale, che nel corso del XIX secolo, dal Piemonte alla Sicilia, si china sulle piaghe di una società devastata dalla rapacità capitalistica e dalla dissoluzione di antiche forme di solidarietà. Come a dire, la parola e l’azione, l’esortazione e l’esempio, la Verità unita alla carità per salvare la società moderna, come disse un giorno ad Agostino il confratello Ludovico da Casoria. Non a caso le offerte raccolte durante le predicazioni alimentavano le opere di carità.
Meteora, fuoco d’artificio, fenomeno da baraccone, oppure uno di quegli straordinari strumenti che hanno cristianizzato il popolo italiano, testimoni di una Chiesa coraggiosa che non si è chiusa nelle sacrestie ma è uscita sulle piazze, nelle strade, ovunque? La personalità di Agostino da Montefeltro pone ancora molte domande, suscita diverse reazioni e genera riflessioni. Il volume di Rance, accattivante, vivace e lieve nella scrittura ma storicamente solido e documentato, è una magnifica occasione per conoscerlo (e magari per rimanerne ancora affascinati).
di Paolo Vian su l’Osservatore Romano del 7 agosto 2018
Agostino da Montefeltro Osservatore Romano
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