”La vita non è un oggetto da possedere o un manufatto da produrre, è piuttosto una promessa di bene, a cui possiamo partecipare, decidendo di aprirle le porte. Così la vita nel tempo è segno della vita eterna, che dice la destinazione verso cui siamo incamminati”. Lo scrivono i vescovi italiani nel messaggio per la 42esima Giornata nazionale per la Vita che la Chiesa celebra domenica 2 febbraio, festa della Presentazione del Signore, come ha ricordato il Papa all’Angelus, e che quest’anno ha come tema un imperativo morale e spirituale, ma anche di azione in cui in qualche modo riecheggia la nota esortazione del Papa Santo, Giovanni Paolo II: “Aprite le porte alla Vita”. Un’occasione per sensibilizzare, riflettere, ma soprattutto per promuovere nuove forme di fraternità solidale e capire come aiutarci l’un l’altro a difendere e custodire il dono più prezioso che Dio ci ha fatto.
Un dono, troppo spesso minacciato e maltrattato attraverso numerose forme di aborto, abbandono, maltrattamento, abuso, e segnato spesso dalla tentazione di arrendersi a varie forme di eutanasia per colpa della malattia, della solitudine, della paura di non farcela, anche dal punto di vista economico, per la mancanza di lavoro. Colpa anche di politiche che non incoraggiano la famiglia, non la sostengono né premiano le sue fatiche quotidiane. “Davanti a queste azioni disumane – si legge ancora nel testo - ogni persona prova un senso di ribellione o di vergogna. Dietro a questi sentimenti si nasconde l’attesa delusa e tradita, ma può fiorire anche la speranza radicale di far fruttare i talenti ricevuti. Solo così si può diventare responsabili verso gli altri e gettare un ponte tra quella cura che si è ricevuta fin dall’inizio della vita, e che ha consentito ad essa di dispiegarsi in tutto l’arco del suo svolgersi, e la cura da prestare responsabilmente agli altri”.
Ogni catena di rifiuto, dunque - dice fra’ Marco Vianelli, direttore dell’Ufficio Nazionale per la pastorale della famiglia della CEI - con l’apporto di tutti noi, può essere interrotta e trasformata in un’azione di cura, capace di custodire ogni vita dal concepimento al suo naturale termine. Andare oltre la chiusura che segna le nostre società, incrementando piuttosto sentimenti di fiducia, solidarietà e ospitalità reciproca diventa allora fondamentale per generare un cambio di passo e per far sì che ogni persona possa essere rispettata e promossa anche là dove si manifesta più vulnerabile e fragile. Tornando al tema del messaggio della Cei per questa Giornata, fra’ Marco, ai nostri microfoni, spiega come racchiuda in sè un’esortazione più che un imperativo e poi rimarca come intendere la dimensione della vita e come accompagnare la famiglia nel suo ruolo di “cellula umana” fondamentale:
R. - Penso che ci inviti ad accettare, ad accogliere questa dimensione della vita umana anche nella sua dimensione biologica per scoprire in seguito il dono grande che Dio ha come progetto al suo interno.
Lei ha parlato giustamente di “dimensione” della vita umana perché spesso si associa il concetto di vita solo a quella nascente, ma non è così?
R. - No, la vita è un dono che si sviluppa nel tempo. Una volta che è messa alla luce, cresce e presenta tutte le sfumature della sua fragilità: penso ad un’infanzia al tempo di Internet come sia esposta; come sia vulnerabile un’adolescenza che magari manca di progettualità e quindi che ha bisogno comunque di essere curata, accolta, accompagnata, vissuta all’interno di un villaggio che trasmetta senso… per non parlare, poi, di una vita che diventa una vita di coppia per arrivare, via via, quando è segnata dagli anni, e può donare la memoria ma anche ha bisogno di cura per questo ultimo passaggio perché, si fa personalmente, non si dovrebbe mai far da soli questo passaggio della morte. E’ un’esperienza personale, nessuno può delegare uno. Però, al fianco di qualcuno penso di sì, lo rende meno faticoso, meno spaventoso. Quindi, la vita è un dono non una cosa data, un pacchetto che resta lì, immutabile per tutto il tempo. E’ qualcosa che va, appunto, accolta nella sua trasformazione.
Non tutti, si dice nel messaggio, fanno l’esperienza dell’accoglienza, della cura dell’accompagnamento. Piuttosto, sperimentano l’abbandono, l’abuso, il maltrattamento… Come si può trasformare questa catena in qualcosa di virtuoso, che sia invece responsabilità e cura?
R. - Penso sia necessario poter entrare nel dramma o nell’assenza di cura e quindi aiutare a rielaborare, accompagnare a rileggere quell’esperienza di assenza, di peccato, perché poi c’è anche questa dimensione, non come una condizione che Dio ha voluto per chissà quale tipo di progetto o come una prova della nostra fede. È invece un Dio che in quel dramma era presente e prossimo e portava la passione delle nostre passioni sul suo corpo e portava a compimento quella sua passione anche nelle nostre passioni…aiutare le persone a trovare un senso, non una spiegazione, che è diverso…è poter permettere loro di scoprirsi parte di una storia di salvezza. Quindi, capaci di raccontare questa storia e di prendersi cura nonostante l’assenza di questa esperienza. E non tanto per risarcire o quantomeno bilanciare il male subito, quanto per poter generare quella vita che custodiamo tutti quanti come dono. Perché la vita chiama alla vita.
Fonte vaticannews.va
CEI Famiglia Marco Vianelli Messaggio Vita
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