Per entrare nel Regno dei Cieli è necessario diventare come bambini (Mt 18, 3-4), è necessario cioè diminuire, addirittura abbiamo bisogno di rinascere (Gv 3, 7): il mistero si verifica in noi quando, attraverso Gesù Cristo, Dio ci predestina all’adozione come suoi figli (Ef 1, 5), e noi diventiamo figli nel Figlio.
Questo mistero però allude all’abbassamento del Figlio (cf. Fil 2), al suo “svuotamento” fino a diventare, per amore nostro, “uno qualunque”. Questo tratto affascinò san Francesco di Assisi e quindi i suoi frati. Dalla notte di Natale a Greccio, quando - nell’espressione audace di Paul Payan, Francesco “è diventato” Giuseppe - i francescani hanno mantenuto nei secoli un rapporto molto stretto, veramente familiare, con l’umile artigiano “figlio di Davide”, la “guida guidata” che visse nella marginalità e nell’insignificanza pubblica, custode della santa famiglia di Nazareth.
I figli di san Francesco, diventano così ferventi evangelizzatori del nome di “Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nazaret” (Gv 1, 45), nella migliore logica dell’Incarnazione. Marginalità, discrezione, mitezza, umiltà, semplicità e ordinarietà nella fatica quotidiana furono lo stile che il Poverello scelse per sé e per i suoi. Uno stile nazareno. Questo si intravede anche nell’atteggiamento che desidera abbiano i frati che partono in missione in partibus infidelium, come testimonia la Regola non bollata, al Capitolo XVI: I frati poi che vanno tra gli infedeli possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti né dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che, quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio perché essi credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo, creatore di tutte le cose, e nel Figlio redentore e salvatore, e siano battezzati, e si facciano cristiani…
ll primo modo è quello che Francesco aveva in mente pensando alle terre dei Mori e dei Saraceni, ma non solo come propedeutica al secondo, bensì come stile proprio della missionarietà francescana: era così che gli altri avrebbero potuto vedere qualcosa dello splendore della vita nuova in Cristo, mite ed umile di cuore, ed essere attirati ad essa. Dunque, mitezza ed umiltà come stile. Nelle terre dominate dalla Mezza Luna, tra Mori e Saraceni, solo tanto faticosamente - e al costo di molto sangue versato-, i frati riescono a custodire un minimo di feconda presenza: la storia travagliata della Provincia d’Oriente e della Custodia di Terra Santa ne dà testimonianza. E nella sua fragilità e vulnerabilità regge fino ad oggi, dalla Turchia alla Siria, dalla Palestina all’Egitto, e altrove.
Mentre fu l’epopea missionaria, iniziata con la scoperta di Colombo, che vide i francescani fiorire e fruttificare oltremisura nelle terre americane, seguendo i dettati della Regola non Bollata: le nazioni meticce dell’America Latina - come pure la nuova Francia, il Canada - sono nati con un “timbro” che distinse particolarmente la presenza francescana: un timbro di umiltà, di condivisione delle fatiche della vita, di magnanimità, di coraggio, di affabilità e di mitezza. Questo vale pure per le Filippine ed il Giappone.
Come risulta dalle cronache del tempo, molti dei primi missionari francescani si lasciano accompagnare ed ispirare da un “tono” di minorità nazarena nella condivisione della vita povera e faticosa degli indios, che attirò la durevole simpatia e affezione delle popolazioni indigene verso di loro, preferendoli ad altri missionari. Una curiosità: partecipando a una missione tra gli indios chiriguanos nel nord dell’Argentina - quasi alla frontiera con la Bolivia - alla fine degli anni ‘70, fui sorpreso nel sentire che se un bambino non era ancora stato battezzato era un “moro”: un linguaggio popolare tramandato dal tempo dei primi missionari francescani di secoli addietro! I figli di san Francesco si lanciarono in una epopea missionaria nell’intero continente americano: dal Canada, dalla California, dalla Florida, dal Messico, giù fino al Cile e all’Argentina, passando per il Centroamerica, il Perù, la Bolivia e il Brasile. Lo zelo missionario li spinse oltre, sino a raggiungere parte dell’Asia: principalmente il sud dell’India, le Filippine e il Giappone, partendo dal Messico o circumnavigando l’Africa. Già nel medioevo i frati avevano seguito i percorsi della Via della Seta, arrivando in Cina, ma adesso si lanciavano in grandi numeri, desiderosi di raggiungere i lontani e di ricreare una “nuova cristianità” puramente evangelica, spiritualmente ispirata dal sogno francescano più radicale.
San Junípero Serra nel 1769 proclamò san José “patrono del mare e delle spedizioni terrestri”, prima di partire per la sua missione in California. Già nel vicereame del Perù un ampio spettro di attività e gruppi umani erano considerati sponsorizzati da lui: giovani, lavoratori sposati, carpentieri, assemblatori e falegnami in generale, fabbri, muratori, trovatelli, senzatetto, morenti e “monti di pietà” - gli istituti di credito contro l’usura -, tra gli altri, sostenevano di essere i suoi figli. I frati diffondevano uno stile di vita, radicato nell’umiltà concreta della vita di Gesù il Figlio del falegname. In tutto il vasto territorio dei vicereami spagnoli, i grandi centri di creatività artistica, come ad esempio la scuola cuzqueña del Perù, animati dagli ordini religiosi - in primis quello francescano -, si diffuse l’immagine della Sacra Famiglia, dove il ruolo di marito e padre è innalzato, riaffermando la santità del matrimonio, l’educazione della prole e la vigorosa protezione dei genitori. In una società in cui le crisi familiari, le guerre e i soprusi, l’emigrazione, l’infedeltà e l’abbandono dei neonati sono stati problemi reali, la fraternità francescana ha cercato di collaborare nella guarigione dell’immaginario, proponendo una nuova figura di mascolinità mite con un bel san Giuseppe, casto e premuroso, tenero e potente nella sua umiltà, protagonista in primo piano, accanto a sua moglie santa Maria, madre esemplare, sposa devota e operosa.
Il Figlio Crocifisso e Risorto, mite ed umile di cuore, era stato allevato bene… Beninteso, questo unito a un prodigioso lavoro di apprendimento delle lingue locali, riprendendo il sogno e le iniziative linguistiche di Raimondo Lullo per entrare nel mondo musulmano! Questo, assieme alle traduzioni e preparazioni di catechismi illustrati nelle lingue indigene, fa sì che i frati missionari nel Messico rimangono in buona misura un modello di inculturazione (e parzialmente di preservazione) del mondo precolombiano, trattando i nativi come figli e fratelli, senza sottostare alle discriminazioni e agli abusi che il sistema coloniale non riusciva ad evitare.
Anche l’architettura fu un campo di creatività, adattando e trasformando stili europei, plasmando nuovi spazi - cortili, cappelle esterne - secondo i bisogni della catechesi e dei rituali adatti alle popolazioni locali, come è palese in Bolivia, dove perfino si ispirarono alla architettura moresca dei cortili delle moschee. Le missioni francescane hanno creato nuovi modelli di costruzione, di aggregazione e di organizzazione dei villaggi indigeni, un vero “ecosistema francescano”, implementando intuizioni che più tardi i gesuiti continueranno, adattandole e perfezionandole, nelle loro famose missioni del Paraguay. Ovviamente le mancanze, le omissioni, i tentennamenti, i cedimenti non mancarono. Ma nell’insieme, i francescani hanno custodito e tramandato fino ad oggi uno stile riconoscibile: mitezza, umiltà, semplicità, affabilità. Non darsi arie. Essere “uno qualunque”. Uno stile nazareno che la gente semplice chiama volentieri “francescano”. Quello stile che papa Francesco testimonia con i suoi gesti e le sue parole.
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