Anni addietro E. Käsemann ebbe a scrivere: “Solo il Dio della croce è il nostro Dio. Ed egli non è mai il Dio che il mondo può accettare senza essersi convertito”. Da questo punto di vista il “perché non sono (o non sono più) cristiano” di molti nostri contemporanei, deve tramutarsi per noi in un interrogativo e in un ripensamento: “Perché io sono (ancora) cristiano?” Che cosa fonda la nostra identità? Chi non accetta Cristo può esercitare nei nostri confronti una funzione maieutica, costringendoci a mettere in luce le fondamenta della nostra fede, proprio come avvenne nei primi secoli quando le questioni provenienti dal mondo pagano ed ebraico hanno costituito uno stimolo per la riflessione cristiana e finanche per il suo sviluppo dottrinale. Allora come oggi è bene porsi sotto gli occhi le difficoltà di essere cristiani per non correre il rischio di illudersi d’esserlo o di esserlo troppo facilmente. Per chi è chiamato all’annuncio non si tratta perciò soltanto di ripensare e di riproporre in modo nuovo il messaggio evangelico per facilitarne la comprensione e l’accettazione, ma di fare presente che la fede cristiana – anche nella situazione attuale – ha qualcosa di difficile da accettare ma d’incontestabilmente essenziale: la fede nella manifestazione dell’Assoluto in una particolarità storica, ossia la fede nella comunicazione che Dio ha fatto di sé in Gesù Cristo. Ora, il problema di fondo che il pluralismo religioso pone è quello di connettere la volontà salvifica universale di Dio con questa fede in Gesù Cristo unico mediatore tra Dio e gli uomini e – di conseguenza – come rimanere aperti al dialogo senza rinnegare la fedeltà all’unicità del cristianesimo.
Si conoscono le risposte date su questo tema fin dagli inizi del cristianesimo: una esclusivista secondo la quale il cristianesimo è la ‘vera religione’ al di fuori della quale non v’è salvezza; una di tipo inclusivo che pur riconoscendo l’unicità della salvezza operata in Cristo, vede nelle tradizioni non cristiane una sorta di ‘praeparatio evangelica’ (Nostra aetate 2); una pluralista in cui le diverse religioni sono valutate su piano paritario come risposte date all’unica realtà divina e quindi non misurate a partire dall’evento di Gesù ma dalla volontà salvifica universale di Dio. Pur rinunciando a parlare di egemonia del cristianesimo rispetto alle altre religioni e riconoscendo che l’opera di Dio non è limitata dall’economia dell’incarnazione, è un fatto che l’affermazione di Paolo “In Cristo (...) abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9) suona inequivocabile. Come afferma Claude Geffré “il cristianesimo, proprio in quanto religione dell’incarnazione, è la religione del paradosso assoluto”. Questa constatazione non ammette equivoci e ci ricorda che il nucleo del cristianesimo non è la fede in Dio, ma in questo ‘volto’ di Dio, incarnato quanto sofferente. Come è sottolineato nella tradizione patristica che non ha perso nulla della sua attualità, questa è la ‘porta stretta’ per la quale si deve passare piegando il capo nell’esercizio dell’umiltà che, come afferma Ilario di Poitiers, rappresenta “la più importante delle virtù” in quanto su di essa è modulata tutta l’esperienza umana di Cristo. Evidentemente l’accettazione di questa esperienza, e più specificamente della passione e morte o del ‘sacramentum humilitatis’ esige uno sforzo della volontà dal momento che l’intelligenza da sola è incapace di afferrare “il perché di un Dio posto sulla croce”.
Ma non è scandaloso tutto ciò? Non è un insulto all’intelligenza umana e un fare violenza a Dio il volerlo delimitare, restringerlo entro un uomo, per giunta crocifisso? Guardando a fondo, l’incredulità riflessa nei confronti di Cristo nasce spesso dall’atteggiamento umano di ‘incapsulare’ la realtà di Dio ed il suo agire entro parametri di ragionevolezza umana.
…
[Sant’]Agostino, lamentandosi di quei cristiani che si dicevano tali, ma sorvolavano gli aspetti scandalosi della loro fede, invita a non vergognarsi del Cristo crocifisso. “Se arrossirai di lui – commenta – sei morto”. La fede in un Dio morto sulla croce non va perciò sottaciuta perché essa non costituisce soltanto il punto di separazione rispetto a chi non crede, ma anche l’elemento fondante del cristianesimo stesso. Certamente riuscirebbe umanamente più ragionevole pensare a Cristo come ad una creatura. «L’ignoranza dell’uomo – dichiara Ilario – non vuole riconoscere il Signore della gloria eterna sotto le deformità della croce». Ma che cosa nasconde questa incredulità? È sempre il tentativo di «rinchiudere ciò che non ha confini nei confini del pensiero», ovvero di costruirsi un Dio che risponda ai propri desideri. Questa è la tendenza sempre presente e che, ancor prima d’Ilario, Atenagora aveva ben sintetizzato dichiarando che i filosofi “non si sono degnati di conoscere da Dio quanto riguarda Dio, ma ciascuno ha voluto conoscerlo a partire da se stesso”. La conferma la troviamo chiaramente affermata nella vicenda dei martiri cristiani: nel nome dello stesso Dio alcuni uccidono ed altri si lasciano uccidere. Ma ancor oggi si può vedere come terroristi fanno stragi nel nome di Dio mentre altri combattono nel suo nome: tutto questo mostra quali implicazioni pratiche contraddittorie si diano nel riferirsi a Dio e come spesso lo si misuri con un metro umano. Va dunque superata la tentazione antropomorfica di fare un Dio a nostra immagine e somiglianza eludendo l’equivoco – come dichiara Ilario – di ritenere che «nel mondo ci sia soltanto ciò che la mente intende in se stessa o può trarre da sé». Persino il fatto stesso di concepire Dio come il contrario dell’uomo significa rimanere prigionieri d’una concezione antropomorfica. Ancora in linea con queste riflessioni Ilario respinge le argomentazioni di quanti, non capendo gli interventi di Dio nella storia, decidono che essi sono ingiusti. È l’errore di quanti pensano «che non possa avvenire ciò che non si riesce a spiegare» e si fanno «arbitri e moderatori del potere divino, quasi che (in rapporto all’incarnazione) sia più difficile per Dio aver assunto un uomo che averlo formato». Eppure proprio i misteri centrali della fede cristiana concernenti l’incarnazione e la morte di Dio significano affermazione della sua alterità; rispetto della sua trascendenza, potenza e libertà; ammissione dell’interesse di Dio per l’uomo, espresso nell’adattarsi a lui senza comunque perdere i suoi attributi. Visto entro questi parametri, lo scandalo dell’incarnazione e della croce rimane, certo, un ‘passaggio’ difficile, eppure, valutato con la ‘logica’ di un Dio assolutamente libero che non si lascia prescrivere dall’uomo come agire, si attenua ed, anzi, cede il posto ad un senso di profonda riconoscenza.
Da: Missionari Cappuccini Milano 56/4 (ottobre-dicembre 2018), pp. 62-64.
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