Una lapalissiana verità, risuonata in quell’indimenticabile veglia di preghiera presieduta da Papa Francesco, il 27 marzo 2020, in una piazza San Pietro deserta, bagnata solo dalle lacrime di un Cielo tutt’altro che indifferente al dolore che stringe il mondo in una morsa di paura inquietante. Eppure da quella piazza si è elevata una parola autorevole di “speranza certa”: è vero che siamo tutti sulla stessa barca, sballottati dalle medesime onde, ma proprio per questo ci è dato di cogliere una straordinaria opportunità, di riscoprire cioè la forza coesiva del NOI. Potremmo così attraversare il mare insieme, come fratelli accomunati non solo da una stessa sorte funesta, quanto piuttosto da una rinascita comunitaria che trova la sua ragion d’essere nella fraternità universale, sostanziata da un «amore che va al di là delle barriere della geografia e dello spazio» (FT 1). Così, nella Fratelli tutti, il Santo Padre Francesco ha regalato al mondo un’enciclica che ha riacceso il «gusto della fraternità» (FT 33), non delineandola come un ideale astratto ma declinandola nelle molteplici sfaccettature concrete, sociali, politiche, religiose in essa incluse.
Nel III capitolo, in particolare, è trattata la funzione sociale della proprietà privata, diritto importante ma non assoluto o intoccabile (cf. Laudato si’ 93). Già san Giovanni Paolo II, a riguardo, scriveva: «Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno» (Centesimus annus 31). Questa destinazione universale dei beni, finalizzata a riconoscere a ogni uomo dignità e opportunità adeguate al suo sviluppo integrale (cf. FT 118), è già stata messa a tema nella Chiesa antica da Padri che molto si sono prodigati per questa causa. Tra quelli menzionati in FT 119, uno in particolare si distingue, san Giovanni Crisostomo, pastore d’anime e sapiente dalla parola colta e ispirata. Di lui si riporta una citazione specifica: «non dare ai poveri parte dei propri beni è rubare ai poveri, è privarli della loro stessa vita; e quanto possediamo non è nostro, ma loro» (De Lazaro, II, 6).
Una parola coraggiosa
La sua predicazione fa emergere l’inaccettabile divario che esiste tra la cupidigia dei ricchi e la sofferenza dei poveri, i “senza voce”, a cui il Crisostomo presta la sua che, vigorosa, si staglia su un contesto storico e sociale preciso e segnato da fratture. La sua vicenda biografica e pastorale si dispiega, infatti, tra Antiochia (dal 386 al 397), importante metropoli dell’impero, con una classe dirigente formata da artigiani e piccoli commercianti, e Costantinopoli (dal 397 in poi) in mano a ricchi che si danno a banchetti sontuosi (hom. I Laz.), con strascichi di schiavi di cui si circondano nelle piazze (hom. Ioh. 3,5), trasportati su carri, da cavalli coi finimenti dorati (comm. 1 Cor. 21,6).
La loro ricchezza si è costruita a scapito dei poveri con il cui sudore «i padroni si riempiono tini e mastelli e non consentono loro di portarsi a casa neppure una minima parte del prodotto, ma riversano tutta la loro produzione nelle botti dell’iniquità e, in cambio del loro lavoro, danno loro una ben misera ricompensa» (hom. Mt. 61,3). Un simile trattamento vessatorio costringe i poveri a mendicare il pane pur di sopravvivere e soddisfare una fame prolungata per giorni e lancinante che facilmente degrada in disperazione. Per Crisostomo una responsabilità in tal senso è anche dei cristiani, i quali con nonchalance giustificano la loro avidità scagliandosi contro l’accumulo di ricchezze da parte della Chiesa che il nostro autore non nega ma anzi legge come un’azione di supplenza cui i presbiteri sono costretti, sacrificando in tal modo la loro fedeltà ai dettami del Vangelo, alle esigenze preminenti della preghiera (cf. hom. Mt. 85,4).
Ora, se «il mondo esiste per tutti» (FT 118), a cosa è dovuta la sperequazione tra ricchi e poveri, visto che «in virtù del diritto divino, al Signore appartiene la terra e la sua pienezza (Sal 23, 1)» e che «con una medesima terra Dio ha creato i poveri e i ricchi e una medesima terra sostiene i poveri e i ricchi» (Aug., Io. ev. tr. VI,25)? In un’omelia il “boccadoro” prende in esame un testo biblico in cui spesso veniva interpolata una frase che ne modificava notevolmente il senso: «Mio è l’argento e mio è l’oro» (Ag 2,8) a cui si aggiungeva arbitrariamente «e li darò a chi voglio», assente sia nella versione dei LXX, come anche nella Vulgata e nella Vetus e che il Pastore di Costantinopoli denuncia come «grande bestemmia» (hom. Ier. 10,23), visto che in Dio non c’è parzialità né ingiustizia.
Dall’avidità alla cattività
Se proprio bisogna risalire all’origine della disuguaglianza sociale, allora si deve chiamare in causa l’uomo, animato da πλεονεξία, cioè dal desiderio crescente di possesso, dall’ingordigia, incurante del fatto che «il mio e il tuo sono semplici parole: non hanno fondamento reale. […] la tua vita non è tua: come potrebbero esserlo le tue ricchezze?» (comm. I Cor 10,3). Farebbe eco tranquillamente Agostino che, su base paolina, direbbe: quid enim habet quod non accepit? (conf. VII,21,27), in polemica non solo, come nella citazione precedente, con i Donatisti qui praeter Ecclesiae catholicae communionem usurpant sibi nomen Christianum (Aug., Io. ev. tr. VI,25), perché dilaniano, cioè, la comunione dell’unica chiesa in nome di un particolarismo antimperiale e conflittuale, ma con tutti coloro che mancano di una visione, per così dire, provvidenzialistica della storia, sorretta da un Dio Creatore «in cui non c’è ingiustizia» (Sal 91,16).
Con un’attenzione filologica, inoltre, Giovanni Crisostomo, individua nel verbo χράομαι (= usare) l’origine del sostantivo plurale neutro χρῆματα che, appunto, indica le ricchezze create da Dio e affidate in particolare a qualcuno perché le restituisca a tutti, soprattutto a chi ne ha bisogno. In tal maniera, «ammesso pure che le tue ricchezze siano giuste ed esenti da ogni rapina e che tu non abbia colpa delle azioni ingiuste per le quali tuo padre si è arricchito, resta il fatto che tu possiedi ciò che è frutto di rapina, anche se tu personalmente non l’hai commessa. […] Le ricchezze non sono cattive, se non sono frutto di rapina e se vengono partecipate a quanti ne hanno bisogno; al contrario sono cattive e insidiose, se non vengono messe a disposizione degli altri» (comm. I Tm. 12,4).
Per questo motivo nel ricco può generarsi una schiavitù, una cattività (da captivus = prigioniero) che lo fa dipendere dai beni accumulati, privandolo della gioia di servire liberamente il Maestro. Come non ricordare, a tal proposito, la triste vicenda del cosiddetto “giovane ricco” (Lc 18,18-27) in cui è palese come «l’accumulo delle ricchezze fa divampare una maggiore cupidigia e rende più poveri quelli che le possiedono perché essi sono dominati dal desiderio di avere di più e perché sentono sempre di più il bisogno di possedere» (hom. Mt. 63,1).
Le opere di misericordia
Un atteggiamento simile richiede, infine, una certa disponibilità alla conversione del cuore, nella chiara consapevolezza che non l’opulenza né la povertà in se stesse siano moralmente imputabili quanto piuttosto il modo di praticarle, di viverle. Convertirsi – spiega Crisostomo mentre parafrasa la parabola delle vergini sagge (cf. Mt 25,1-13) – significa equipaggiarsi dell’olio per il banchetto di nozze. L’elemento materiale lubrificante è allegoria delle opere di carità corporale, quali il nutrire gli orfani, vestire gli ignudi, visitare i malati e solo così potrà distinguersi come un olio che «scorrerà in abbondanza più che da una fonte» (hom. Rm. 18,16). Per questa via si otterrà la restituzione ai legittimi proprietari di quanto impropriamente è diventato nostro, ricordandoci – scrive Papa Francesco che cita alla lettera Gregorio Magno – che «quando distribuiamo agli indigenti qualunque cosa, non elargiamo roba nostra ma restituiamo loro ciò che ad essi appartiene» (reg. past. III,21).
In FRATELLI TUTTI, a cura di Graziano Maria Malgeri
dal n. 2/2021 della Rivista Porziuncola
Photo credit: Katt Yukawa da Unsplash
Graziano Malgeri Rivista Porziuncola
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