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Un viaggio sul tema della povertà francescana 30 Nov 2018

I frati non si approprino di nulla 2/2

I seguaci della povertà sono coloro che considerano la possibilità di lavorare come una grazia concessa dal Signore, per questo devono approcciarsi ad essa secondo lo stile offerto dagli aggettivi fideliter e devote. Il primo, legato nella sua radice con il termine fides, indica che il lavoro deve realizzarsi dentro un clima di adesione alla volontà di Dio; il secondo, proveniente dal verbo devovere, imparentato con il sostantivo votum, conferisce al lavoro del frate minore la caratteristica di un’azione consacrata integralmente a Dio, in una specie di culto spirituale. Il lavoro del povero appare, quindi, come l’opzione di chi sì è consacrato a Dio come servo. Solo questa visione teologica conferisce al lavoro il potere di allontanare l’ozio, nemico dell’anima, e nel contempo di non spegnere il cima di preghiera che deve permeare la vita del frate minore.

La retribuzione del lavoro di questi umili seguaci della povertà non sarà, allora, guidata dalla bramosia dell’accumulo, ma dalla semplice necessità propria e dei fratelli. A completare il trittico, Francesco inserisce il capitolo VI nel quale, dopo aver fissato il principio generale della non appropriazione, stabilisce i criteri che devono guidare l’andare per elemosina, per concludere con quello che è stato chiamato l’inno all’altissima povertà. L’espressione «di nulla si approprino» è una formulazione negativa che indica la radicalità nella rinuncia ed equivale a una disposizione dello spirito ordinata alla piena libertà interiore.

La «non appropriazione » punta al futuro, in quanto indica la decisione interiore di non essere proprietario; si differenzia dall’«espropriazione », che guarda al passato o al presente della persona e comporta l’esercizio di lasciare o di spogliarsi di qualcosa, sia di tipo materiale, sia di tipo spirituale. La portata della «non appropriazione » è molto più profonda della semplice rinuncia alle cose e del significato che si suole dare al termine «povertà », perché ha ripercussioni bibliche ed è imparentata con ciò che in termini cristologici chiamiamo kenosis (svuotamento, annientamento). Secondo Francesco, l’unico capace di appropriarsi è Dio, dato che è il padrone di tutto, «il pieno bene, tutto il bene, totale bene, vero e sommo bene» (Rnb XXIII,9); noi mai possiamo riservare per noi stessi i beni che appartengono a Lui; al contrario, dobbiamo restituirglieli e riconoscere che tutti i beni sono suoi. Il povero, quindi, è colui che fa suo lo stile della non appropriazione contemplato nel Cristo pasquale che svuota se stesso per fare posto in sé alla povertà dell’uomo peccatore, come Francesco esprime trascrivendo quasi le parole di san Paolo di 2Cor 8,9: «perché il Signore si è fatto povero per noi in questo mondo». Se Dio è l’unico proprietario, allora il frate, è colui che, «con povertà e umiltà, con fiducia e senza vergogna» non può non riconoscersi mendicante che bussa alle porte del grande elemosiniere per provvedere al sostentamento dei fratelli, quando la ricompensa del lavoro non fosse sufficiente, sebbene il termine «umiltà» faccia pensare a una mendicità primariamente del cuore.

Ed ecco che, con espressioni di grande densità biblica, Francesco sintetizza con enfasi la sua dottrina sulla povertà. «Questa è quella sublimità dell’altissima povertà che, fratelli carissimi, vi ha costituiti eredi e re del regno dei cieli, vi ha fatti poveri di cose e vi ha innalzati con le virtù». L’ossimoro evidente «altissima povertà» è comprensibile solo tenendo conto della premessa cristologica che soggiace alle precedenti espressioni della Regola: la povertà che arricchisce è quella di coloro che in tutto cercano di imitare l’abbassamento e l’umiltà del Figlio, avendo come fine ultimo l’eredità eterna di quel regno di Dio proclamato da Gesù Cristo povero (Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli, Mt 5,3).

Chi sceglie questa povertà accetta di vivere il paradosso nel quale si contrappongono non «cose» e «non cose», ma «cose» e «virtù»: un nuovo ordine di valori nel quale il cuore non vibra più per i beni materiali, ma per quelli spirituali e la povertà delle cose crea le condizioni indispensabili di libertà interiore per accogliere il tesoro del cielo, «la parte di eredità, che conduce nella terra dei viventi».

In FRANCESCANE COSE, a cura di Simone Ceccobao
dal n. 1/2018 della Rivista Porziuncola



Povertà Rivista Porziuncola Simone Ceccobao

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