La passione, la morte e la sepoltura non rappresentano l’epilogo del “caso Gesù”, ma segnano un nuovo inizio. La tradizione evangelica conosce e descrive un “dopo”, uno sviluppo proprio a partire dagli avvenimenti del Venerdì santo. Due gli elementi posti in evidenza: la scoperta della tomba vuota e le apparizioni del Signore risorto non a tutti, ma a testimoni prescelti. Ogni evangelista propone una propria versione di ciò che è accaduto dopo la morte di Gesù, ma i diversi racconti si possono ritenere ispirati allo stesso scopo: tracciare un percorso di riconoscimento del Signore risorto, passando dall’iniziale incomprensione alla gioia, dalla paura alla fede. La posta in gioco è alta: si tratta non tanto di aderire o meno a un insegnamento settoriale o particolare, ma di giungere alla professione della fede pasquale.
Questo aspetto emerge soprattutto nel Vangelo di Giovanni, in particolare al capitolo 20, in cui la narrazione - dalle azioni ai personaggi ricordati - propone il primo confronto con la novità della risurrezione di Gesù.
Il primo giorno dopo il sabato, la sera di quello stesso giorno, i discepoli, che «non avevano ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risorgere dai morti» (Gv 20,9), si trovavano in un luogo “sicuro”, con le porte chiuse, per timore dei Giudei (Gv 20,19). In un contesto segnato dall’incomprensione e dalla paura, Giovanni narra della prima apparizione di Gesù ai suoi. Il Risorto si presenta con un saluto che è anche una parola di auspicio («Pace a voi»: Gv 20,19.21.26), compiendo un gesto singolare: l’ostensione delle mani e del costato. Il verbo deiknymi che significa «mostrare, indicare, esibire» nel Quarto vangelo ha sempre valore rivelativo (Gv 2,18; 5,20a.b; 10,32; 14,8.9).
La reazione immediata – il riconoscimento del Risorto – non consiste in un’esclamazione, ma in un sentimento di gioia «al vedere il Signore». Seguono la ripetizione del saluto di pace, il mandato missionario («Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi») e l’azione di Gesù del “soffiare/ alitare” lo Spirito Santo sulla comunità dei discepoli (Gv 20,20-21). Anche nell’apparizione narrata da Luca, il Risorto esorta i presenti ad un’esperienza sensoriale, attraverso un invito ancor più esplicito di quello giovanneo: «Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io. Toccatemi e guardate». Subito dopo, Gesù «mostrò loro le mani e i piedi» (Lc 24,39).
I racconti di Giovanni e di Luca sono concordi nel richiamare l’attenzione su alcuni aspetti della “fisicità” del corpo del Risorto: il quarto evangelista insiste su “mani e costato”, mentre nel racconto lucano gli Undici e gli altri presenti devono guardare “le mani e i piedi”. Ciò che accomuna i due Vangeli è dunque lo sguardo rivolto al corpo del Risorto, in modo particolare alle mani: «Guardate le mie mani».
Nel racconto giovanneo, l’insistenza sulle “mani del Risorto” è ancor più accentuata. Il riferimento alle mani, come oggetto di “contemplazione” e “via” di accesso al riconoscimento del Signore Risorto, si trova in entrambe le apparizioni ai discepoli. Nella prima (Gv 20,19-23), l’ostensione delle mani e del costato si rivolge all’intero gruppo, mentre nella seconda, l’invito a guardare le mani si indirizza esclusivamente a uno solo dei discepoli, Tommaso, detto Didimo (= gemello), appartenente ai Dodici, ma assente all’incontro con il Risorto.
Nell’intermezzo narrativo tra la prima e la seconda apparizione, l’evangelista ricorda che a Tommaso, l’annuncio della risurrezione giunge attraverso la testimonianza degli altri apostoli: «Abbiamo visto il Signore» (Gv 20,25).
La sua risposta, però, non è la gioia e neppure l’adesione di fede, ma la richiesta di un’esperienza personale del Risorto, come conditio sine qua non per prestare il proprio assenso fiduciale.
Tommaso è colui che non vuole essere ingannato (Gv 20,24-25). Egli rifiuta di dar credito alla testimonianza oculare degli altri discepoli, arroccato nella propria posizione di diffidenza («Io non credo»): a suo dire, solo la “visione” delle mani trafitte e del costato di Gesù può fargli cambiare idea (Gv 20,25). In questo modo, Tommaso si pone in netta antitesi con quanto affermato dal narratore riguardo al discepolo amato, colui che insieme a Pietro si era recato di corsa al sepolcro. Dopo l’ingresso nel sepolcro vuoto, dove poté osservare i teli e il sudario, ordinatamente piegati, di lui si afferma che «vide e credette» (Gv 20,8). La situazione “iniziale” di Tommaso, invece, è del tutto diversa e si può riassumere così: “non vide e non credette”.
Otto giorni dopo, la svolta. È la seconda apparizione ai suoi, in cui però gli altri discepoli rimangono sullo sfondo: l’evento è incentrato sul rapporto tra il Risorto e Tommaso, perché deve essere chiaro che il Signore è tornato per incontrare proprio lui. Dopo il saluto di pace, il Gesù riprende quasi alla lettera le parole che Tommaso aveva rivolto agli altri discepoli (Gv 20,25) e lo esorta a toccare e a fissare lo sguardo sul corpo risorto che per la seconda volta ha oltrepassato le barriere fisiche rappresentate dalle porte chiuse.
Il lettore ascolta nuovamente l’invito di Gesù: «Guarda le mie mani» (Gv 20,27). Infine, l’ultimo imperativo del Risorto riguarda la fede di Tommaso: «E non essere incredulo, ma credente» (Gv 20,27). La risposta non è un semplice moto di gioia, ma una delle più importanti professioni di fede cristologica del Nuovo Testamento: «Mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28).
Nel passaggio da un’irriducibile incredulità alla fede pasquale, l’evangelista ha posto in rilievo l’importanza del “guardare le mani del Risorto”, secondo una dinamica che rappresenta una logica non solo narrativa, ma teologica. La menzione delle mani, da guardare e toccare, è un invito a fare memoria del tempo pre-pasquale, anche se la condizione del Risorto è ormai completamente diversa da quella della sua missione terrena. Le mani, su cui sono impressi i segni della violenza subita, rimandano agli avvenimenti della Passione, alle trafitture dei chiodi, con cui Gesù fu fissato alla croce.
Le mani del Risorto hanno dunque una grande forza rivelativa: attestano che il Gesù pre-pasquale si presenta ora come Risorto. Ma parlano anche della sua umanità, di tutti i gesti d’amore che attraverso quelle mani hanno trovato piena espressione e visibilità: il lavoro di Gesù a Nazaret, nella casa paterna, il contatto sanante con i malati, la lavanda dei piedi degli apostoli…
Le mani “rivelano” l’identità del Risorto, continuano a comunicare, recano i segni della passione, ma ora emanano anche la luce della gloria.
Si conclude così l’itinerario di riconoscimento del Risorto da parte del discepolo incredulo che non aveva accolto la testimonianza della comunità, ponendo anche una serie di condizioni a supporto del suo assenso di fede. Le parole di Tommaso, «Mio Signore e mio Dio», rappresentano al tempo stesso la sintesi e il vertice dell’esperienza pasquale, vera e propria cifra programmatica della cristologia giovannea. All’intera comunità credente, il Risorto svela una “nuova” beatitudine: il privilegio della fede post-pasquale non consiste nel vedere, ma nel non vedere.
di Germano Scaglioni OFMConv, docente di Nuovo Testamento
per “San Bonaventura informa“ (Marzo 2018)
Fede Germano Scaglioni Pasqua Risurrezione SBi
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