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Storia di Caritas Pirckheimer 03 Feb 2017

La libertà di coscienza è un dogma irreformabile

Caritas Pirckheimer (1467-1532) entra a 16 anni nel monastero delle sorelle povere di S. Chiara, a Norimberga, del quale diventa abbadessa nel 1503. Nata in una delle famiglie più rinomate della città, scopre ben presto il desiderio della conoscenza non disgiunta dalla passione per Dio. Per tutti i componenti della sua famiglia, infatti, è cosa abituale conseguire un dottorato in diritto a Padova, ma lo è parimenti la disposizione a coltivare la vocazione alla vita religiosa, fino a varcare la soglia del monastero. Caritas apprende il latino e studia nella biblioteca del nonno, reputata la collezione privata più celebre di tutta la Germania. La formazione spirituale le viene impartita, invece, dalle Religiose dello stesso monastero di S. Chiara, cui, com’è consuetudine cittadina, le giovani vengono affidate, a partire dall’età di 12 anni. Quanto alle sue conoscenze teologiche e bibliche, sono frutto della predicazione del frate minore Stefano Fridolin (1430-1498), teologo, non meno che storico, noto nei monasteri della Germania per le sue spiegazioni, in tedesco, degli inni e dei salmi inscritti nell’Ufficio delle ore. La sua spiritualità biblica e patristica affonda le radici nella mistica di Taulero e in quella spagnola dell’età d’oro, contraddistinta da un forte accento sui sentimenti. Bonaventuriano e cristocentrico, egli vede tutta la creazione naturale e soprannaturale nel simbolo del cuore di Cristo.

Caritas, virgo docta, intrattiene uno scambio epistolare con i maggiori rappresentanti dell’Umanesimo tedesco: Konrad Celtis, Christoph Scheurl, Benedictus Chelidonius, Kilian Leib. Per questo non è ben vista dai superiori, che arrivano a proibirle l’uso della lingua prediletta dagli Umanisti, il latino. Lo stesso Erasmo la cita nei suoi Coloquia familiaria, ispirandosi a lei nel concepire il personaggio di Magdalia, emblema della donna colta e umanista. L’abbadessa del monastero di S. Chiara di Norimberga è, dunque, una degna rappresentante di quel fenomeno, definito dagli storici dell’Umanesimo claustrale Klosterhumanismus. In particolare, la sua ricca corrispondenza con gli umanisti, di contenuto mai banale, evoca una serie di questioni riguardanti il dibattito teologico sulla Riforma Protestante. Attraverso di essa si ricostruiscono non solo gli avvenimenti, ma anche le riflessioni condotte a loro riguardo.

Sulla riforma, in particolare, Caritas interviene, difendendosi dalle accuse che le vengono rivolte dal magistrato della città e dai predicatori protestanti: ella non si riconosce idolatra di S. Francesco, né accetta di dichiararsi ignara della scrittura; non confida nella salvezza proveniente dalle sue opere, ma solo nella fede verso l’unico Salvatore; sostiene, poi, con fermezza, che è la libertà che l’ha condotta a pronunciare i voti e nella libertà intende continuare a rimanere fedele alle sue promesse e poiché tali promesse sono state ispirate dall’amore, che è libertà somma, nessun magistrato, né autorità religiosa può impedirle l’esercizio di una tale libertà. È ancora in nome di essa che apre un confronto con Melantone e, indirettamente, anche con lo stesso Lutero, accordandosi non solo con il primo, ma anche con il secondo: ‘Perché: non è forse vero che anche il giovane Lutero, il riformatore della prima ora, si è battuto per la libertà?’ Bandita dalle autorità cittadine, come Lutero a Worms, risponde affermando che niente e nessuno le avrebbe potuto imporre di agire contro la propria coscienza.

Nella controversia contro il dottor Wenzel Linck, Caritas afferma, inoltre, che non intende impegnarsi in dispute con personaggi dotti ed esperti di questioni dottrinali, trovandole infruttuose, aggiungendo, poi, la precisazione : “quanto ad agire contro la nostra coscienza, questo ci sarebbe insopportabile”. A Kaspar Nützel, che tenta in tutti i modi di convincerla a cambiare idea, risponde che le dispiace di non poter accordare la propria fede con la sua, perché si tratta di una questione di coscienza: “Agire contro la nostra coscienza, questo è per noi difficile, poiché se diciamo di credere qualcosa che in realtà non possiamo credere, noi avremmo ingannato noi stesse, perché la fede è una grazia di Dio e non tollera di essere sottoposta a costrizione”.

Le monache del monastero di Caritas continuano dunque ad alzarsi di notte anche durante la Riforma, si applicano ad una penitenza equilibrata, ma soprattutto si comunicano frequentemente: prima, una volta al mese, poi, due volte al mese, quindi, una volta alla settimana. Private però della comunione per ordine dei riformatori, sperimentano una preghiera cristocentrica, che si impernia sulla contemplazione della Passione. La Parola di Dio soprattutto sta al centro della meditazione comunitaria e personale: “noi abbiamo l’abitudine dell’ascolto quotidiano dell’Antico e Nuovo Testamento, in latino e in tedesco […], ci sforziamo di comprenderlo secondo le nostre capacità e competenze”. Sotto l’influsso dell’Umanesimo, poi, praticano la lettura dei padri, soprattutto di Gerolamo e di Agostino.

Caritas ritiene, infatti, di non aver niente da apprendere dalla Riforma, perché la sua vita è fondata sulla Parola, che ascolta con la comunità durante la preghiera, durante i pasti, in privato e comunitariamente. Ella soprattutto non basa la propria salvezza sulle opere, ma soltanto sulla grazia di Cristo, dalla quale attinge anche la forza per osservare i voti: “Ho un gran bisogno della grazia per potere osservare i voti. In questa stessa grazia spero, voglio e desidero osservare i voti, per non vivere contro Dio, basandomi sulle mie sole forze, ma radicata in colui che può tutte le cose e del quale S. Paolo afferma: posso tutto in Colui che mi da la forza”. Non intende, dunque, aderire alla Riforma, se non per un aspetto, che sente di condividere: la libertà di coscienza!

Il Consiglio cittadino può dunque decidere solo per quanto concerne le questioni esteriori, ma non ha alcuna autorità sulla coscienza e non può impedire la libertà di scelta, guidata, appunto, dalla propria coscienza. Al rappresentante del Consiglio cittadino, dopo la decisione del marzo 1525, di adottare la religione protestante, Caritas risponde: “I magistrati sanno bene come noi abbiamo seguito quanto alle cose temporali tutte le loro decisioni, ma in rapporto alle cose della nostra anima, non possiamo seguire nessuno eccetto la nostra coscienza”. Successivamente, alla visita degli emissari del Consiglio che comunicavano le misure restrittive prese nei confronti del monastero, Caritas annota: “Con Paolo dobbiamo considerare come l’ultima delle cose il subire i giudizi degli uomini, perché non osiamo nemmeno giudicare noi stessi, considerandoci innocenti di fronte a Dio, che è testimone della nostra buona coscienza. La testimonianza della nostra coscienza infatti è la nostra vera gloria”. La testimonianza della coscienza è, perciò, l’unico diritto delle Religiose, prima ancora del ricorso a ragioni filosofico dottrinali o confessionali ed è il fondamento ultimo della loro scelta confessionale: “Sarebbe cosa davvero disonorevole e deprecabile se dovessimo aggiungere alla clausura del corpo, che abbiamo accettato liberamente di buon animo, il carcere della nostra coscienza, in un tempo nel quale viene predicata la libertà evangelica”. E ancora: “Speriamo che le loro Sapienze – scrive sempre al Consiglio cittadino – non vorranno rifiutarci la libertà cristiana”. Quando Kaspar Nützel, procuratore del monastero, cerca in tutti i modi di convincere Caritas a cambiare idea, adducendo la ragione della pace e della concordia sociale, dal momento che molta gente, e soprattutto i monasteri, prendono come punto di riferimento la badessa di S. Chiara, con il rischio che il dissenso religioso da lei manifestato provochi disordini, afferma: “Mi chiede di far fare alle suore delle cose che sono contro la mia coscienza. Non lo farò per rendere un favore agli uomini, né per loro timore [...] Ci sono ai nostri giorni un così gran numero di divisioni e di errori che sono in numerosi a non sapere cosa devono credere. È per questo che noi, tutte insieme, abbiamo deciso di permanere nell’antica fede e nel nostro stato di religiose, senza adottare nulla di nuovo che non sia già in uso nella chiesa cristiana […] La fede e la coscienza di un essere umano non possono essere forzate perché Dio, Signore nostro e di tutti, è lui stesso a volere la libertà delle coscienze e che nessuno subisca costrizione alcuna”. Per Caritas la coscienza si dimostra, allora, un luogo teologico, utile, anzi indi pesabile per difendere la propria libertà di credere e di agire.

Il testo sopra riportato è il contributo integrale di un articolo di p. Giuseppe Buffon, frate minore della Provincia Serafica di San Francesco d’Assisi, pubblicato su L’Osservatore Romano del 2 febbraio 2017.



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