L’intera esistenza di Francesco d’Assisi si fonda e si determina in una profonda semplicità evangelica. Ed è in questo suo andare verso Dio che Egli acquista luce per conformarsi alla Sapienza di Dio incarnata, a Cristo, con naturalezza di imitazione che ripete ingenuamente ogni gesto, come un bambino ingenuamente ripete i gesti della madre: «Se non ritornerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli».
«Bisogna rinascere». La vita in Cristo è veramente una rinascita, un ritornare all’innocenza perduta, un purificare il cuore, e ridiventare per grazia, «un piccolo».
A questo mistero di semplicità si apre il cuore di Francesco; il mattino della sua vita è tutto illuminato dal Vangelo.
Il Vangelo che emana semplicità da ogni sua pagina, è accolto da lui con una naturalezza che a noi sembra perfino ingenua, ma l’entrare di Francesco nella via di Dio è ardimentoso, di quell’ardire che solo i semplici sanno avere.
L’uomo è necessariamente tanto semplice, quanto più si fa simile a Cristo, perché è solo attraverso Cristo che si incanala nella carità di Dio. Così se Francesco è un uomo ma «piccolo» nella luce di un rapporto di amore puro tra l’uomo e Dio, senza estranee interferenze, la sua semplicità diventa perfetta quando assume l’abito di quella di Cristo.
E di questa semplicità Francesco si fa partecipe dal momento in cui sente leggere alla Porziuncola il passo evangelico in cui è dipinto al vivo la povertà dell’apostolo, discepolo di Cristo, che va a predicare il Regno di Dio e la pienezza, senza denaro, né bisaccia, né bastone, né calzari.
E’ in questa santa semplicità che il Santo si riduce a «fare abitazione e dimora a colui che è il Signore, Dio nostro onnipotente, padre e figlio e Spirito Santo» (Rnb 61), dove non c’è più tempo, né luogo, né passato, né futuro, ma presente.
Questo spirito aperto e sincero è caratteristico del Poverello, ma non esclusivo perché da lui si diffonde e si comunica a tutti gli altri, creando una «magna selva» di anime evangelicamente semplici, nelle quali il parlare e l’agire senza finzioni sono specchio terso di quella «semplicità colombina» che splende dentro la norma e la misura della grandezza vera - quella che fa degni del Regno dei cieli, - che scaturisce dalla semplicità, di cui è archetipo il bambino, che ha il cuore è l’occhio puro, candido e schietto.
Gesù lo difende e lo porta come esempio, e là, dove gli uomini non vedono che un essere inerme ed inesperto, fiorisce un mistero delicato e sacro: il mistero della semplicità.
Francesco intuisce in modo mirabile questo mistero con l’occhio e il cuore rivolto a Dio.
Gli occhi «pieni di semplicità» (1Cel 83) di S. Francesco sono quelli che, attingendo luce dall’interno, dall’unità dove zampilla quella vena viva, che è la carità di Dio, scoprono che «in ogni cosa nient’altro dobbiamo fare, se non essere sollecitati di seguire la volontà del Signore, per piacere a Lui con intenzione santa e pura, non per qualche interesse terreno né per timore, né per amore di qualcuno, né per piacere agli uomini».
Ma tutta la volontà, «per quanto concede la grazia di Dio onnipotente, deve essere diretta a Lui, col desiderio di piacere a Lui, il Sommo. E’ per questo che il cuore, quando prega, chiede : «Concedimi, o Dio onnipotente… di fare per puro amore tutto ciò che sappiamo che vuoi e di volere sempre quello che ti piace… .
E nel piccolo, santo uomo si rivela tutta la volontà del grande Iddio: «L’Altissimo stesso mi rivelò che dovevo vivere a norma del santo Vangelo».
La volontà del Padre celeste sarà, per questo uomo dello spirito, il cibo unico: il sangue vitale della sua anima, il nutrimento quotidiano.
Così diventato «semplice non per natura, ma per grazia» nel senso che la sua semplicità era passata dal piano naturale a quella semplicità, «figlia della grazia, sorella della sapienza che è contenta del suo Dio e che persegue in ogni cosa il sommo e stabile bene».
E semplicità è vera sapienza. Sapienza e semplicità sono intimamente congiunte nel pensiero di S. Francesco.
Di questo spirito sapienziale Francesco vuole siano animati i suoi figli, dotti o ignoranti che siano. Tutti possono e debbono diventare semplici secondo il Vangelo, per raggiungere quella sapienza che rende figli di Dio ed eredi del Regno dei cieli.
Il figlio di Pietro Bernardone, nato mercante, e che perciò doveva aver ereditato col sangue la mentalità calcolatrice di ogni cosa, misurando col metro dell’utilità materiale e dell’interesse pratico, si libera non solo dai beni, polvere della terra, ma anche dall’attaccamento ad essi e perfino da quella tendenza connaturale all’uomo che lo spinge a fare da sé, a contare sui propri mezzi, a procurarsi una sicurezza di vita fondata sui beni tangibili.
Egli diventa l’autentico fanciullo evangelico che non si preoccupa di quello che mangerà e berrà, né dei panni che vestirà. Egli pensa solo a mantenersi attaccato a Dio, come un bambino al collo del padre. Conosce solo l’amore del Padre, e ha in Lui una fiducia senza limiti.
Da questa piccolezza e semplicità, che obbligano Dio a intervenire a difesa di chi si pone nelle sue mani, nasce l’assoluta confidenza in lui: una confidenza che pare talora incredibile ingenuità, ed è sapienza autentica.
S. Francesco è il figlio della grazia. La semplicità, che in lui sembra fatta persona, è grazia che irradia dal mistero del Verbo incarnato, da lui teneramente amato, e si infrange in unità interiore, in purezza, in dedizione, con schiettezza nativa.
Per lui Dio diventa realmente tutto. «Deus meus et omnia». L’Unico e il Tutto.
S. Francesco insegna a darsi a Dio così, ad amarlo così: non a metà, ma con pienezza, come Egli ama, sovranamente ponendo tutti nel proprio amore ed è Colui che deve essere amato senza misura, in senso pieno e definitivo. Per questo è necessario che l’uomo di oggi sappia riscoprire la semplicità evangelica come «regola» di vita che viene da Dio e va verso Dio.
Povertà Sapienza Stefano Orsi
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